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Cronaca

Additivi chimici e cibi avariati, la mappa dei ristoranti giapponesi a rischio

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Dall’involtino primavera alla tempura il passo è breve. A volte troppo. Dietro il boom del sushi in Italia c’è la riconversione dei ristoranti cinesi. Nulla di male, se non fosse che dai controlli dei Nas e dalle denunce degli operatori emergono spiacevoli sorprese: materia prima di scarsa qualità, pesce di dubbia provenienza e intossicazioni.

Oggi un ristorante su dieci ha in menù piatti di sushi. Eppure, seconde le stime della Federazione italiana pubblici esercizi, di questi solo il 7% è a gestione giapponese. La stragrande maggioranza è in mano a cinesi. A Milano, capitale italiana del pesce crudo in salsa orientale, Tripadvisor recensisce oltre 500 locali di questo tipo. Ma le imprese individuali di ristorazione appartenenti a cittadini nipponici sono nove (quelle cinesi 473). A Roma 14 e a Torino 5.

Altro fronte è l’uso di additivi chimici (più o meno legali) per mascherare il grado di deterioramento del pesce. Il Cafodos è un conservante bandito in Italia, che restituisce caratteristiche esteriori di freschezza, mentre all’interno l’alimento invecchia. Poi c’è l’acqua ossigenata, impiegata per rendere più bianche e brillanti le carni. Il monossido di carbonio è usato invece per «ringiovanire» il tonno rosso. Infine c’è l’acido borico, utilizzato sui pescherecci per mantenere il colore originario dei gamberoni.

Dal gennaio 2015 ad oggi i carabinieri del Nas hanno effettuato 2058 controlli in ristoranti etnici. In 1205 esercizi commerciali sono emerse irregolarità. Nel 70% dei casi sono state riscontrate carenze igienico-strutturali, nel 46% cattivo stato di conservazione degli alimenti, nel 19% frode in commercio, nel 7% etichettatura non conforme o mancata tracciabilità. «Ma non c’è alcuna emergenza sushi», rassicura Salvatore Pignatelli, comandante del Nas di Milano. «L’aumento delle denunce è fisiologico perché legato dall’aumento dell’offerta».

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