Il caso Yara è quasi concluso. Oggi, salvo sorprese, i giudici della Corte d’Assise di Bergamo emetteranno il verdetto nei confronti di Massimo Bossetti, l’uomo accusato dell’omicidio avvenuto a Brembate il 26 novembre 2010.
L’imputato prenderà la parola in aula, per la seconda volta da quando è alla sbarra: proclamerà per l’ennesima volta la sua innocenza per cercare di convincere i due togati e i sei giudici popolari a emettere un verdetto lontano dalle richieste dell’accusa. Il pm Letizia Ruggeri chiede ergastolo con isolamento diurno per sei mesi, una condanna “ammorbidita” da possibili attenuanti per il muratore incensurato o la libertà immediata dopo due anni in carcere. Impossibile, in questo caso, prevedere quanto durerà la camera di consiglio.
I 60 faldoni in cui è rinchiusa l’inchiesta danno come unica prova regina il Dna. La pistola fumante per l’accusa, un colpo a salve per la difesa. La traccia mista – forse sangue – trovata sugli slip e sui leggings della 13enne appartiene alla vittima e a “Ignoto 1” poi identificato in Bossetti. Ma in quella traccia il Dna mitocondriale (indica la linea materna, ndr) non corrisponde all’imputato. “Un’anomalia che non inficia il resto: solo il Dna nucleare ha valore forense”, sostiene l’accusa. Un “mezzo Dna contaminato” la cui custodia e conservazione “sono il tallone d’Achille” di un processo “indiziario”, ribattono i difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini. E’ un’indagine faticosa, con numeri record e che non trascura nessuna pista, quella che porta a identificare il padre naturale di Bossetti (Giuseppe Guerinoni di cui sarà necessario riesumare la salma), quindi la madre che ha sempre negato la relazione clandestina.
A incastrare Bossetti ci sarebbero altri elementi: i passaggi del furgone davanti al centro sportivo e le fibre tessili sulla vittima compatibili con la tappezzeria del suo Iveco; le sferette metalliche su Yara che rimandano al mondo dell’edilizia o l’assenza di alibi e il suo tentativo di fuga il giorno dell’arresto. Indizi su cui la difesa ribatte mettendo in dubbio anche il luogo dell’omicidio. Il furgone immortalato non è di Bossetti e l’allineamento degli orari delle telecamere non combacia con i tempi dell’accusa; le sfere e le fibre non riconducono con certezza all’imputato, il quale non è mai scappato.