La Corte ribalta il giudizio di appello dove il licenziamento era stato bocciato perché “motivato soltanto dalla riduzione dei costi e quindi dal mero incremento” dei guadagni, mentre è legittimo anche nel caso di una “più efficente organizzazione aziendale”
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La Corte di Cassazione, con una sentenza depositata il 7 dicembre scorso (segnalata dal quotidiano ItaliaOggi), scrive una nuova pagina nel campo del diritto del lavoro. Destinata a fare giurisprudenza e quindi a essere presa come riferimento anche dai tribunali di primo e secondo grado, chiamati a decidere sulle controversie tra imprenditori e dipendenti.
Il datore di lavoro può licenziare un dipendente non solo in caso di difficoltà economiche e in situazioni di ristrutturazioni aziendali dettate da una congiuntura negativa, ma anche per “una migliore efficienza gestionale” e per determinare “un incremento della redditività”. In altre parole: per cercare di aumentare i profitti.
Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo – si legge nel dispositivo – l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa; ove però il licenziamento sia stato motivato richiamando l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addottata dall’imprenditore”.